In questa puntata ci soffermiamo sulla tendenza, anche un po’ spinta da questo periodo di lockdown, a rivalutare ciò che abbiamo sotto gli occhi: dagli small shop sotto casa, ai locali che hanno deciso di abbandonare la filiera di rifornimento della grande distribuzione e affidarsi ad una serie di piccoli produttori che operano nel rispetto della terra e dei suoi prodotti.
Milano è sempre stata la grande metropoli d’Italia. Una città dinamica, fruita in maniera fugace e spesso poco attenta. I momenti di tranquillità paradossalmente sono i giri nei centri commerciali o negli shopping district, dove la gente passa intere giornate tra spese e figli.
E poi “consentiremo solo il lavoro in modalità smart working”. Cosa ha significato questa frase in concreto? La vità è decisamente diventata più slow. Corse la mattina per prendere i mezzi? No grazie!
Ci siamo anche accorti di un mondo differente intorno a noi, soprattutto di quello sotto casa. Cappuccio di soia e brioche ai mirtilli, e scopri che non hai mangiato niente di più buono. E pensare che lo avevi proprio sotto casa.
Abbiamo stravolto la nostra routine. Casa e lavoro combaciano, e questo ci ha permesso di porre anche maggiore attenzione alla nostra alimentazione. Per una volta lasciamo da parte le grandi spese del weekend nei grandi centri commerciali (anche per ovvie ragioni di decreto) e proviamo a vedere cosa ci propongono i negozi sotto casa, la cui frutta magari è prodotta nell’orto di casa, con amore e dedizione.
Con Carla, proprietaria di Tipografia Alimentare, punto di riferimento per molti sul Naviglio Martesana, abbiamo discusso della vita di quartiere, dei piccoli produttori e di origano cubano.
Ciao Carla, oggi ti interroghiamo su alcuni temi caldi della sostenibilità, perché crediamo che il tuo Tipografia Alimentare sia un bell’esempio di locale ad impatto positivo, sotto diversi punti di vista. Con il lockdown, si è riscoperta la vita di quartiere. Tu hai scelto la Martesana come casa per il tuo locale. Quali sono le motivazioni alla base di questa decisione?
È stata una scelta dettata dal cuore. Io e mia figlia Martina, con cui ho aperto il locale, abbiamo sempre vissuto in zona. La Martesana è un quartiere di cui ci si innamora. È bellissimo dal punto di vista architettonico, ma soprattutto umano. Ci ha regalato e ci sta regalando davvero tanto, in questi ultimi anni in particolar modo.
Proprio dal punto di vista umano, senti di aver creato un centro di aggregazione? La tua clientela tipo è gente della zona?
Sì la maggior parte sono persone del quartiere. E questo è quello che ci ha un po’ aiutato in questa fase di lockdown. Paradossalmente locali più famosi, ma anche più turistici hanno sofferto maggiormente questo periodo, essendo stati penalizzati dalla mancanza di turisti. Da noi vengono tutte persone del quartiere. C’è un po’ un ricambio generazionale nel corso della giornata, ma pur sempre del quartiere.
Hai notato un cambio della clientela, anche a livello di abitudini, tra prima e dopo il lockdown?
Ti dirò, da quando abbiamo avuto la concessione del comune di disporre qualche tavolino lungo il naviglio Martesana, tante persone che non ci conoscevano hanno avuto modo di avvicinarsi al nostro mondo. Molti diventano clienti abituali, altri magari no per la scelta radicale, che abbiamo fatto, di eliminare il prodotto industriale e lavorare poco la materia prima.
Riallacciandoci a quest’ultimo punto, uno dei trend emersi in questo periodo è “sostieni gli small shop di quartiere”. Voi avete fatto da apripista da questo punto di vista, selezionando piccoli produttori per le vostre materie prime.
Ci siamo innamorati di una serie di piccoli produttori che conosciamo di volta in volta. Facciamo un lavoro capillare di selezione delle materie prime, non appoggiandoci di fatto alla grande distribuzione. Instauriamo rapporti diretti con tutti i nostri produttori. Li conosciamo tutti personalmente, creando delle relazioni per così dire familiari. È sicuramente più faticoso che affidarsi ad un rappresentante che ti fornisce tutti i prodotti, ma in termini di soddisfazione e di relazioni instaurate è sicuramente migliore.
Nonostante Milano sia una città veloce, dinamica, in cui se ci pensi è complesso prendersi del tempo per selezionare i prodotti di cui hai bisogno, voi avete optato per una scelta più slow.
È stato un processo lento, con molte esitazioni, ma alla fine questa scelta sta dando i suoi risultati. Il cliente che torna è perché apprezza la nostra scelta: dalla selezione di vini totalmente naturali al cibo e alla sua lavorazione minimale.
Cosa vi ha spinto ad aprire Tipografia Alimentare, e a darle questa direzione di vivere il cibo in maniera più slow?
Mia figlia Martina, che ha aperto con me il locale, ha frequentato l’università di Scienze Gastronomiche di Slow Food. Ha fatto propri quei valori di vivere un rapporto diretto con la terra, rispettando il suo ruolo e ciò che ci offre.
Anche la scelta di cosa proporre nel menù ci ha colpito molto. Il succo di mela sfusa che stiamo bevendo in questo momento è una scelta fuori dagli schemi. Non trovi questo tipo di bevanda in giro, a meno che non sia un prodotto della grande distribuzione. Tenendo in mente questo ritorno al passato nella selezione e proposta dei piatti, quali sono secondo te le sfide che un locale che guarda al futuro dovrà affrontare da qui al post 2020?
Il rispetto. Imparare a rispettare le persone con cui collabori, i produttori da cui ti rifornisci, la terra che ti offre i prodotti. Per dire una banalità su quest’ultimo punto, noi in cucina non abbiamo i fornelli, se non un forno. Questo significa che la materia prima di cui disponiamo viene lavorata pochissimo.
Stavamo leggendo il menù e ci sono saltati all’occhio ingredienti di cui non conoscevamo l’esistenza.
Sì è vero! È un menù alquanto particolare. Alla base ci sta la voglia di far conoscere ai nostri clienti prodotti nuovi e a portata di mano. Il farinaccio per esempio. È una specie di spinacio selvatico. O ancora l’amaranto, che è un cereale. Di solito si usano le foglie di amaranto per il tè, ma è anche un ottimo sostituto della pasta. Poi c’è il sommacco, un’infiorescenza portata in Sicilia dagli Arabi.
E l’origano cubano?
Ce lo ha fatto scoprire Daniele, il produttore di verdure da cui ci riforniamo. Ci ha regalato delle piantine per il nostro dehors, e tra queste c’era una pianta che non avevamo mai visto. Alla vista e al tatto sembra una pianta grassa. Ci ha spiegato che è un’erba aromatica molto usata nei Caraibi.
Ultima domanda. Come immagini il futuro di Milano, sia in termini di sostenibilità che di nuove tendenze in generale?
Milano si è già, a mio parere, avviata sul giusto percorso. Spero semplicemente che continui questa evoluzione sostenibile. Più spazio ai pedoni. Più spazio alle biciclette, come già sta avvenendo in questo splendido tratto della Martesana. Spero anche un’evoluzione della sostenibilità dal punto di vista umano. Immagino una Milano che vada sempre più incontro ai giovani e alla loro aggregazione, vedendola meno come un fastidio. Una Milano che dia più spazio ai deboli, disincentivando l’emarginazione. I milanesi hanno sempre dimostrato buona volontà nel cambiare le cose, per questo credo che ci si possa avvicinare e acquisire con facilità dei comportamenti virtuosi a beneficio di tutta la comunità.